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Dudley and Julia are ready for Christmas in the film "The Bishop's Wife" (1947), starring Cary Grant and Loretta Young.

Un cavaliere solitario ascolta il ritmo degli zoccoli ,è la sua unica sinfonia, mentre il vento gli sussurra storie che solo chi vaga senza una meta può comprendere

Il Tempo

Il tempo è il grande arcano dell’esistenza, un fiume invisibile che ci attraversa e ci sfugge, un enigma che la mente umana contempla con stupore e impotenza. Sant’Agostino, nelle sue Confessioni, si interrogava: “Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se devo spiegarlo, non lo so più”. Egli intuì che il tempo non è un’entità oggettiva, un contenitore esterno in cui gli eventi si dispongono, ma una dimensione dell’anima: il passato vive nel ricordo, il futuro nell’attesa, il presente nell’attenzione. Il tempo, per Agostino, è la distensio animi, un’estensione della coscienza che si dilata nel suo stesso essere.
Eppure, questa intuizione si scontra con l’oggettività che il tempo sembra assumere nel pensiero moderno. Kant, nella Critica della ragion pura, lo eleva a forma a priori della sensibilità: il tempo non è “là fuori”, ma il modo in cui la nostra mente ordina l’esperienza. È una struttura trascendentale, un telaio invisibile su cui si tesse il reale. Non possiamo pensare il mondo senza tempo, così come non possiamo vedere senza luce. Ma se il tempo è in noi, come possiamo afferrarlo? Esso resta un paradosso: condizione della nostra comprensione, eppure sfuggente alla nostra presa.
Heidegger, nel Novecento, sposta il foco dall’astrazione alla concretezza dell’esserci. Il tempo, per lui, è l’orizzonte dell’essere. Non è una linea retta che corre dall’inizio alla fine, ma un cerchio esistenziale: l’uomo, gettato nel mondo, si proietta verso il futuro (il suo poter-essere), radicato nel passato (il già-stato), per vivere autenticamente il presente. Il tempo non è neutro; è cura, è finitezza, è la consapevolezza della morte che dà sapore all’istante. L’essere-temporale non è un accidente, ma la stoffa stessa della nostra esistenza.
Diversa è la visione di Bergson, che rifiuta la misurazione meccanica del tempo – il tempo degli orologi, spazializzato e frammentato – per celebrare la durée, la durata. Il tempo vero è flusso, è qualità, è il movimento continuo della vita che non si lascia catturare in istanti separati. Come un melodia, che non è la somma delle sue note ma il loro intreccio vitale, il tempo bergsoniano è intuizione, è creatività, è il respiro dell’essere che si dispiega senza mai irrigidirsi.
E allora, che cos’è il tempo? È forse tutte queste cose insieme: misura e mistero, struttura e divenire, limite e possibilità. È il compagno silenzioso che ci accompagna, il testimone delle nostre gioie e delle nostre ferite, lo specchio in cui l’eterno si riflette nel fugace. La filosofia del tempo non offre risposte definitive, ma ci invita a dimorare nella domanda, a fare del tempo non un padrone da temere, ma un campo da abitare con consapevolezza. Poiché nel tempo, in fondo, si gioca il dramma della nostra libertà: essere o non essere, questo è il tempo.

Chi ha le ali per volare in cielo non deve stare sulla terra

AMGentile

L'attimo sospeso

L’attimo sospeso è il respiro trattenuto dell’eternità, un luogo senza tempo in cui il passato e il futuro si dissolvono, lasciando solo la fragile perfezione del presente. Non è un istante che si vive: è un istante che ci vive, che ci attraversa come un filo d’oro teso tra la realtà e il sogno.

In quell’attimo, ogni rumore si spegne, il mondo sembra smettere di girare, e l’esistenza si raccoglie tutta in un unico battito. È la goccia di rugiada che indugia sul bordo di una foglia all’alba, l’ultimo sguardo tra due che si amano prima della separazione, il silenzio che precede l’applauso, carico di attesa e di gloria.

Non c’è spazio per il dubbio né per il rimpianto. L’attimo sospeso è uno specchio limpido che riflette solo ciò che è vero. È un tempo che non teme la morte, perché in esso ogni cosa è già compiuta, già eterna.

Chi lo incontra non può dimenticarlo. L’anima rimane intrisa di quell’istante, come un petalo conserva il profumo del fiore. È l’apice del vivere e insieme il suo mistero più insondabile. In esso, tutto si ferma, eppure tutto accade: l’universo respira,  il cuore, per un istante, batte all’unisono con l’infinito.



Il Giorno a venire

Il giorno a venire si presenta innanzi a noi come un’ombra luminosa, un enigma che si dispiega nel silenzio dell’essere. Esso non è mera successione temporale, un volgare scorrere di ore che si susseguono come granelli in una clessidra indifferente, ma è piuttosto un’apertura, un invito ontologico alla possibilità. Nel suo grembo si cela l’infinito potenziale dell’umano, quel Dasein heideggeriano che, gettato nel mondo, si protende verso l’avvenire con tremore e speranza.
Il giorno a venire è il luogo del non-ancora, una soglia che separa l’atto dal potency, l’esserci dal poter-essere. È il kairos dei Greci, il tempo propizio che sfugge alla tirannia del chronos e si offre come dono, come spazio sacro in cui l’esistenza può interrogarsi sul proprio senso. In esso, il filosofo scorge il riflesso dell’eterno: non un eterno statico, immobile come una statua di marmo, ma un eterno dinamico, che pulsa nella tensione tra il finito e l’infinito, tra il contingente e l’assoluto.
Eppure, questo giorno non si dà mai in pienezza. È un’apparizione velata, un orizzonte che si ritrae mentre ci avviciniamo, secondo la lezione di Levinas: l’alterità del domani ci sfugge, ci precede, ci eccede. Esso ci chiama a un’etica della responsabilità, a un prendersi cura dell’essere – del nostro, di quello degli altri, del mondo stesso – poiché nel suo mistero risiede la promessa di una trascendenza immanente. Il giorno a venire non è possesso, ma attesa; non è certezza, ma fede nella possibilità che l’umano si riscopra, nel suo limite, infinito.
Così, mentre il sole ancora tace e l’alba trattiene il suo respiro, il giorno a venire si erge come una domanda muta: chi saremo noi, nell’atto di accoglierlo? Sarà esso il teatro della nostra caduta o il palcoscenico della nostra elevazione? La risposta non è inscritta nelle stelle, ma nelle pieghe del nostro volere, nell’audacia del nostro pensiero, nella delicatezza del nostro agire. Poiché il giorno a venire non è che lo specchio dell’anima che osa guardarsi, e, guardando, divenire.

 

Rosa la notte

Rosa era la notte. Non il rosa pallido di un fiore delicato, ma un rosa profondo, quasi malinconico, come il cielo sfiorato da un’alba esitante che non sa se nascere. Lei camminava sola sotto quella cupola di sfumature irreali, avvolta da un silenzio interrotto solo dal lieve fruscio del vento. L’aria sapeva di ricordi, di promesse non mantenute, di sogni abbandonati a metà strada. Ogni passo sembrava affondare in una sabbia invisibile, eppure andava avanti, attratta da qualcosa che non sapeva nominare. La città addormentata alle sue spalle taceva, le finestre delle case chiuse come occhi ormai stanchi,  nel suo cuore c’era un bagliore che non si spegneva, un lume acceso dalla speranza. Qualcosa, o qualcuno, l’attendeva oltre l’orizzonte. Poi vide una luce, minuscola e tremolante, forse una candela nella lontananza. Avanzò con cautela, fino a trovarsi davanti a una porta socchiusa. Varcò la soglia senza esitazione, il cuore che batteva all’unisono con quella notte rosata e surreale. Dentro c’era solo una stanza vuota, e al centro una collana d’argento con un piccolo ciondolo a forma di cuore, era un orologio. La prese tra le mani tremanti. All’improvviso, tutto si fece chiaro. La notte rosa non era altro che il colore delle sue emozioni. Un ponte tra passato e futuro, tra rimpianti e possibilità. Uscì nel vento, lasciandosi alle spalle quella stanza e le ombre. Rosa la notte, ma dorato il suo passo. Finalmente pronta a incontrare l’alba.

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La vera bellezza

La vera bellezza è un frammento d’eterno che il tempo non osa sfiorare. È il riverbero di una luce nascosta, un sussurro dell’universo che parla a chi ha occhi per ascoltare e orecchie per vedere. Non si lascia catturare né definire, perché vive oltre i confini delle parole, nei dettagli che sfuggono allo sguardo frettoloso.
Immagina un volto, non perfetto, ma vero: un sorriso appena accennato che disegna l’infinito, uno sguardo che contiene l’eco di vite passate, un respiro che si intreccia con il vento. O pensa a una mano, callosa o delicata, che racconta storie in ogni piega della pelle, in ogni vena visibile come un fiume antico.
La bellezza è nel contrasto: nella fragilità che si fa forza, nella gioia che nasce dal dolore, nel caos che genera ordine. È il fiore che sboccia tra le crepe del cemento, il mare che abbraccia la costa con pazienza infinita, il tramonto che incendia l’orizzonte per poi spegnersi in un silenzio maestoso.
È un richiamo per l’anima, un invito a fermarsi, a vivere pienamente quell’attimo irripetibile, sapendo che la vera bellezza non risiede mai solo nella forma, ma nel sentimento che suscita, nell’emozione che risveglia. E come un soffio di vento,che lascia tracce indelebili nel cuore.

L'eternità

L’eternità si erge come un vertice inaccessibile del pensiero, un’idea che attrae e respinge, che illumina e acceca. È il sogno della mente che anela a sfuggire al divenire, il richiamo di un assoluto che sfida la caducità dell’esistenza. Per Platone, l’eternità non è un tempo infinito, un prolungamento indefinito della durata, ma un altro ordine dell’essere: il regno delle Idee, dove il vero e il bello dimorano immutabili, al di là del flusso corrotti del sensibile. L’eternità platonica è stasi perfetta, un “sempre” che non conosce ieri né domani, un presente assoluto che abbraccia l’intero.
Aristotele, con il suo Motore Immobile, le dà un volto diverso: l’eternità è l’atto puro, l’energia incessante che muove il cosmo senza mai mutare in sé. È la causa prima che, immobile, genera il movimento, un paradosso di quiete dinamica che sostiene il tutto. Ma è con Plotino che l’eternità diventa mistica: essa è l’Uno, il principio trascendente che sfugge al tempo, un’unità senza divisione, un silenzio che parla più forte di ogni parola. Contemplarla è ascendere, lasciare il molteplice per tornare all’origine.
Nel Medioevo cristiano, l’eternità si tinge di teologia. Per Boezio, è la “possessione totale e simultanea di una vita senza fine”: Dio, fuori dal tempo, vede passato, presente e futuro in un unico sguardo eterno. Qui l’eternità non è solo immobilità, ma pienezza, una totalità che il tempo frammentato degli uomini può solo sognare. Questo pensiero trova eco in Spinoza, che nell’Etica parla di un’eternità immanente: non un aldilà, ma una prospettiva sub specie aeternitatis, un vedere le cose nella loro necessità razionale, svincolate dal capriccio del momento. L’eternità spinoziana è la libertà della mente che si riconosce parte dell’ordine divino della natura.
Eppure, l’eternità non è senza ombre. Nietzsche la sfida con il suo “eterno ritorno”, un’eternità non di stasi ma di ciclicità radicale: ogni istante, ogni gioia, ogni dolore, destinato a ripetersi all’infinito. Non è una consolazione, ma una prova: puoi amare la vita abbastanza da volerla rivivere eternamente? Qui l’eternità si fa peso, ma anche possibilità di affermazione, un sì detto al tempo nella sua totalità.
Che cos’è dunque l’eternità? È forse l’anelito dell’umano verso l’infinito, un riflesso della nostra finitezza che si proietta oltre sé stessa. È il contrasto che dà senso al tempo, come la luce rivela l’ombra. Ma non è possesso: l’eternità ci sfugge, resta un’idea-limite, un orizzonte che illumina il nostro cammino senza mai lasciarsi raggiungere. La filosofia dell’eternità non ci consegna una patria, ma un viaggio: ci chiede di pensare l’impensabile, di abitare la tensione tra il fugace e l’assoluto, di trovare, nella nostra temporalità, barlumi di ciò che non muore. Poiché nell’eternità, forse, non cerchiamo altro che noi stessi, eternamente sospesi tra l’essere e il nulla.

Zack

Il Giostraio 13